del Gelindo trascritto da Rodolfo Renier nel 1896, ovvero della Natività popolare piemontese

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La prima edizione del “Gelindo” fu curata dal Renier che si giovò di alcune stampe del Monferrino e dell’Alessandrino e le stampò a Torino nel 1896. Questa è una brevissima trama dell’azione. Ott. Augusto ordina il censimento; il pastore Gelindo costretto a partire si lamenta di ciò con la moglie Alinda alla quale fa mille comiche raccomandazioni,  e parte e torna indietro cento volte: ciò che ha caratterizzato il personaggio, passato in proverbio.

Maria e Giuseppe, anch’essi in viaggio per Betlemme incontrano Gelindo che loda in modo farsesco la bellissima sposa. Poi, mentre Gelindo prosegue da solo, gli sposi, cercato invano un alloggio, trascorrono la notte in una stalla. Maria confida a Giuseppe che Gesù sta per nascere. Il bambino nasce e i pastori portano i doni. Gelindo, Maffeo, Aurelia, Alinda e altri pastori lo accarezzano. Maffeo fa una piccola suonata da pastore; Aurelia conserva in ricordo le fasce del Neonato. Narrata la storia dei Magi, la strage degli innocenti, la fuga in Egitto, la lotta fra i figli di Erode e la morte del re il “Gelindo” ….

“GELINDIUM” significa gelare, congelarsi, Dal Piemonte a Betlemme, di Luciano Nattino.

Il Gelindo è il testo teatrale popolare più presente e conosciuto in Piemonte, almeno fino alla seconda guerra mondiale. Negli anni è stato letto e rappresentato nelle stalle, negli oratori, nei teatrini. L’origine del Gelindo è sicuramente monferrina e gli studiosi concordano nel porre la sua prima scrittura nel XVII secolo.

Ma la sua tradizione orale si collega al teatro medievale di tutta l’area franco piemontese, ai “mistères” e ai presepi viventi di francescana memoria, diventati in seguito drammi sacri con forte presenza di elementi profani. Per gli antichi il tempo del solstizio d’inverno era ritenuto sacro e occasione per festeggiare la rinascita del sole: da quel giorno, infatti, le giornate cominciano ad allungarsi e il sole riprende vigore, nonostante la stagione diventi più fredda.

Nel grande nord questo tempo durava nove giorni e nove notti: erano le magiche notti di Odino, durante le quali il mitico condottiero percorreva con la schiera dei suoi valorosi guerrieri l’arco del cielo, portando doni ai comuni mortali. Parimenti la dea celtica Epona può essere paragonata alla nostra Befana, era raffigurata su un cavallo, o posta accanto a dei cavalli, con una serie di oggetti simbolici , la sua immagine era spesso sistemata in piccole edicole nelle stalle, con il compito di proteggere gli animali e di favorire l’abbondanza dei raccolti e la fertilità degli animali.

Del resto il mito di un Bambino solare è diffuso fin dai tempi antichi in tutto il mondo precristiano: dall’Egitto (Horus) alla Grecia (Dioniso), alla Persia (Zoroastro), legato al ciclo delle feste propiziatrici del solstizio d’inverno.

Dunque Gelindo (nella rappresentazione teatrale) ha parecchi secoli di storia alle spalle. Il Gelindo è stato negli anni (ed è tuttora) oggetto delle più diverse interpretazioni e lezioni.

Si conoscono versioni del Monferrato, dell’Alessandrino, del Canavese, del Roero, del Novarese, dell’Ossolano, ecc. E diversi sono gli studiosi che si sono occupati di lui. Già Costantino Nigra e Delfino D’Orsi, nel loro studio dedicato al Natale canavesano, fanno alcuni accenni al Gelindo, utili per una sua possibile datazione.

Ma è soprattutto l’importante lavoro di Rodolfo Renier (coevo del Nigra) ad attestare nel 1896 la grande diffusione del Gelindo e della “divota cumedia” in Piemonte.

La popolarità del Gelindo in Piemonte non è inferiore a quella di Giandoja. Personaggi tipici invero assai diversi ma entrambi colorati ed entrambi in certa guisa rappresentanti del buon senso malizioso del popolo, l’uno nelle campagne, l’altro nella città. Renier dà un quadro esaustivo delle possibili fonti del Gelindo sostenendo che è l’Alto Monferrato la sua vera culla e dicendo che il testo primitivo era probabilmente una semplice “adorazione dei pastori” senza le scene romane, quelle erodiane. Inoltre egli documenta molte rappresentazioni in quegli anni del Gelindo in provincia di Torino, di Asti, nel Roero, nel Novarese, in Valsesia e nell’Alessandrino.

Per Agostino Barolo nel Gelindo c’è poco della “sacra rappresentazione medioevale la quale ebbe, anche in Piemonte, con le confraternite, il suo rigoglio. Non c’è nulla, in questa, della ascetica disciplina che regolava, tra i confratelli, la recitazione delle laude a dialogo intorno alla Passione di Cristo o alle vite dei Santi. In Gelindo c’è il motto spiritoso, il ragionamento bonario, una certa profanità di espressione che non si ammettevano certamente in quelle severe adunate.

Ma appunto per questi elementi Gelindo, secondo Barolo, si è conservato “cosa viva e, ad ogni ritorno di Natale, viene recitato nell’accogliente tepore delle stalle, tra il ruminare dei bovi, in un ambiente che colorisce l’azione della sua tinta più naturale.”

E poi parlando del famoso detto “Gelindo ritorna!”(Babbo natale ritorna!) l’uomo dal gelo ritorna!,il preistorico uomo delle nevi non abbandona i cuccioli,usciva a caccia sulla neve per giorni di grosse prede (vedi i mammut di, o i cervi) e per chi aspetta torna sempre a portare – usava lo zaino- si congelava la carne – nel teatrino Barolo afferma: “Con questa espressione si proverbia da noi colui che dovendo partire non sa mai decidersi ma saluta e, dopo poco, ritorna per ripartire e ritornare almeno cinque o sei volte”.

Ancora Barolo: “Le rappresentazioni del Gelindo formano da sempre il divertimento più desiderato dal nostro popolino che vede rispecchiata, nel pastore che va a Betlemme, la propria indole umoristica e bonacciona la quale non conosce atteggiamenti d’occasione, non s’ammanta di falsi pietismi, non snatura insomma se stessa, mai, neanche nei più eccezionali avvenimenti. Per questo Gelindo, parla con San Giuseppe e con la Vergine senza alcuna soggezione, quasi questi fossero dei loro e davanti al Bambin Gesù escono nelle espressioni più schiette e più semplici”.

Il costume di Gelindo nel presepio viene così descritto da Giuseppe Ferraro “Vecchio pastore con un cappellaccio in capo, giacca rossastra con un agnello disposto torno torno il collo e legato davanti sul petto nelle quattro zampe. Egli serve ancora a Carpeneto come termine di paragone per indicare un bonaccione, un amante degli usi antichi”.

Una bella descrizione letteraria del Gelindo ci viene da Augusto Monti nel suo romanzo I Sansôssì da cui il seguente passaggio: “Gerusalemme è Torino, Betlemme è Acqui: Gelindo e compagnia son di quei nostri pastori delle bricche lassù – pifferi e colascioni, ricotte e robiole del becco – al confine tra Piemonte e Liguria. C’è malcontento tra quella gente: un bando, il censimento, han toccato il tamburo: andar a Betlemme, i capifamiglia, a consegnarsi. Nelle case le donne garriscono: ‘angherie! soprusi! correr fin là in questa stagione: che tranello li attende? Ah! Il tributo! Ecco quel che c’è lì sotto: gli imbrattacarte di colà, le mangerie che studiano!’ Gli uomini silenziosi ascoltano. Parla Gelindo capo di casa, nel suo scabro dialetto reciso: ‘Gli ordini sono ordini: più presto si obbediscono e meglio torna: a recalcitrare non c’è che farsi vuotar la casa dagli sbirri. Si venderanno due agnelli, i più grassi del branco, pazienza!” E si va. Brontolando. Ma si va.. Si va. Verso Betlemme. Verso Acqui. Alla Fiera. Al Miracolo!

Grande Gelindo: autoritario furbo diffidente e tirchio, almeno nei propositi suoi, ma un bonaccione in fondo, che le donne avviluppano, i servitori disobbediscono, i legali tosano, i signori conculcano; ma i poveri e gli infelici – come Giuseppe e Maria- lo impietosiscono fino alle lagrime, fino al sacrificio di sé e della roba sua. Grande Gelindo.”

E afferma: “Prima ancora che sulle tavole del “Teatro dei frati” (dove si recita annualmente dal 1924) il Gelindo è stato per secoli usato nelle stalle, cioè letto, agito, rappresentato alla buona durante le veglie invernali nelle cascine a corte della pianura come nei cascinotti della collina.

Nelle vicende di Gelindo, pastore del contado di una esotica Betlemme Monferrato, i contadini nostri scorgevano riflesso tutto il loro mondo, con la parlata di tutti i giorni, la paura e il timore mascherati di rispetto per i potenti, ma anche le piccole felicità e il patrimonio di affetti e consuetudini che rendeva unita la classe dei dominati nella lotta per l’esistenza.”

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